Pasquale
Scura memorialista
di
Ettore
Marino
Basta riandare con la mente alle formule
dei referendum della nostra Repubblica per avvedersi che una cert’arte occorre
pure a concepire la formula d’un plebiscito. Grata semplicità e chiarezza
connotano invece la formula del plebiscito del 1860. Secoli di aspirazioni e di
lotte si videro così condensati in quelle sillabe: “Il popolo vuole l’Italia
una e indivisibile, con Vittorio Emanuele, Re costituzionale, e i suoi discendenti.”
Lo Scura aveva desiderato quel momento. Dettò col cuore. Soprattutto, questo
preme e ripetere occorre, dettò con arte.
Nel Febbraio del 2011, presso Lepisma, Roma, Francesco Perri ha
pubblicato in volume un’assai ricca messe di carte su e di Pasquale Scura (Pasquale Scura, “L’Italia una e indivisibile”)
suggellandola con tre introvabili ma da lui ritrovati testi storici che Scura
diede ai torchi, nel 1852 i primi, nel 1865 il terzo. Vi incontriamo uno Scura
uomo di idee intense. Ha una prosa innervata di buone letture latine, un periodare
ampio e mai sciatto, un lessico rétro
(possa l’atto di stampa non cassarmi i corsivi!) anche per gli anni in cui
scriveva – e ciò molto ci garba. Soprattutto, dispone la materia con maestria,
disegnando all’inizio un panorama storico e sociale o addirittura toponomastico
e paesaggistico (è il caso dello studio sul vescovo Serrao), per poi puntar sui
fatti dipanandoli, o meglio lasciando che precipitino secondo un ritmo tragico
e naturale a un tempo.
Son due scritti gemelli, quello sul
vescovo e quello sui Filomarino della Torre. Una corte impaurita e crudele, un
ceto intellettuale vigile, generoso e solo, una plebe che, “ignorante ed
abituata al servaggio, godeva di vivere tra gli antichi suoi ceppi”. Così muore
trafitto l’illuminato vescovo Serrao, così finiscono arsi vivi i fratelli Filomarino,
colpevoli soltanto di una “mirabile virtù che gli faceva preferire i vantaggi
della società agl’interessi personali e di casta”. Il viscido barbitonsore che
corre ad eccitare la plebaglia contro i Filomarino, così come la trappola dai
buoni cittadini di Potenza concepita a vendetta sui sicari del vescovo sono
l’uno uno snodo e l’altro una chiusa che mostran bravo e schietto il gusto di
narrare del nostro concittadino.
Il quale scrisse soprattutto una
dissertazione su Gli Albanesi in Italia.
Mi si permetta la prima persona. Ho
amato questo scritto innanzitutto per avervi ritrovato la mia antica personale
equazione Albanesità = Buon uso della lingua albanese e Gioia di riconoscersi
albanesi tra chi tale non è. Per lo Scura, però, detta equazione vale, sì, ma
non esclude il resto. Non è equazione, insomma. Lo scritto suo perciò va oltre,
e viene a prendere la forma d’un piccolo prodigio di elastica prensilità che
percorre con ampie e sicure falcate ciò che per lui è l’essenza ed il
manifestarsi dell’albanesità, dalle nebbie che fondon storia e mito, ai
monumenti delle antiche gesta, per poi venire al Kastriota, alla sua morte, ai
vari momenti della diaspora, ai luoghi in cui i semi albanici caddero, al modo
con cui furono accolti, alla vita che, ridotta quasi a sé stessa, riprende
forma, si definisce e articola: tutto, s’è detto e si ripeta con altre parole,
senza che nulla venga omesso, senza sfiancar chi legge.
Scura scriveva
in tempi in cui essere arbresh voleva
dire assai di più che parlare arbrisht.
Ed ecco ch’egli si fa antropologo, e il mondo dond’era stato esiliato gli fiorisce
sul foglio a colori sì vividi che, adesso che quel mondo è morto, basta al
lettore abbandonarsi al flusso delle pagine per saperne ogni cosa, dai riti di
nozze a quelli funebri, e con essi e per essi rivedere le giornate dei villaggi
albanesi di centocinquant’anni fa.
Di noi
com’eravamo Scura conosce luci ed ombre, dice vizi e virtù. Non innalza peani.
Non si liquefa in pianti. Quando i meridionali parlano di sé fan l’uno e
l’altro. L’arbresh, Dieu merci, non lo fa.
Ministro arbresh, Pasquale Scura. Ministro
d’Italia.
Va ricordato. Va
conosciuto sempre più, sempre meglio. Perri ha aggiunto una tessera chiara a
rifarne il mosaico. Gliene siamo ben grati. Possano altre aggiungersi. Però non
ci si illuda: lo Scura fu uomo abile e giusto. Fu un grande uomo. Non fu un gigante.
Contribuì all’unità nazionale. Non ne fu condizione imprescindibile. Nessuno
pensi dunque di gonfiare d’aria un uomo che, se si vedesse ridotto a pallone,
si bucherebbe da sé, dalla tomba, con un colpo di indice schietto assai più di
quello d’uno stocco.
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