mercoledì 13 giugno 2012

A PROPOSITO DEL LIBRO DI FRANCESCO PERRI


 Pasquale Scura memorialista
di
Ettore Marino


         Basta riandare con la mente alle formule dei referendum della nostra Repubblica per avvedersi che una cert’arte occorre pure a concepire la formula d’un plebiscito. Grata semplicità e chiarezza connotano invece la formula del plebiscito del 1860. Secoli di aspirazioni e di lotte si videro così condensati in quelle sillabe: “Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile, con Vittorio Emanuele, Re costituzionale, e i suoi discendenti.” Lo Scura aveva desiderato quel momento. Dettò col cuore. Soprattutto, questo preme e ripetere occorre, dettò con arte.



         Nel Febbraio del 2011, presso Lepisma, Roma, Francesco Perri ha pubblicato in volume un’assai ricca messe di carte su e di Pasquale Scura (Pasquale Scura, “L’Italia una e indivisibile”) suggellandola con tre introvabili ma da lui ritrovati testi storici che Scura diede ai torchi, nel 1852 i primi, nel 1865 il terzo. Vi incontriamo uno Scura uomo di idee intense. Ha una prosa innervata di buone letture latine, un periodare ampio e mai sciatto, un lessico rétro (possa l’atto di stampa non cassarmi i corsivi!) anche per gli anni in cui scriveva – e ciò molto ci garba. Soprattutto, dispone la materia con maestria, disegnando all’inizio un panorama storico e sociale o addirittura toponomastico e paesaggistico (è il caso dello studio sul vescovo Serrao), per poi puntar sui fatti dipanandoli, o meglio lasciando che precipitino secondo un ritmo tragico e naturale a un tempo.

         Son due scritti gemelli, quello sul vescovo e quello sui Filomarino della Torre. Una corte impaurita e crudele, un ceto intellettuale vigile, generoso e solo, una plebe che, “ignorante ed abituata al servaggio, godeva di vivere tra gli antichi suoi ceppi”. Così muore trafitto l’illuminato vescovo Serrao, così finiscono arsi vivi i fratelli Filomarino, colpevoli soltanto di una “mirabile virtù che gli faceva preferire i vantaggi della società agl’interessi personali e di casta”. Il viscido barbitonsore che corre ad eccitare la plebaglia contro i Filomarino, così come la trappola dai buoni cittadini di Potenza concepita a vendetta sui sicari del vescovo sono l’uno uno snodo e l’altro una chiusa che mostran bravo e schietto il gusto di narrare del nostro concittadino.

         Il quale scrisse soprattutto una dissertazione su Gli Albanesi in Italia.

         Mi si permetta la prima persona. Ho amato questo scritto innanzitutto per avervi ritrovato la mia antica personale equazione Albanesità = Buon uso della lingua albanese e Gioia di riconoscersi albanesi tra chi tale non è. Per lo Scura, però, detta equazione vale, sì, ma non esclude il resto. Non è equazione, insomma. Lo scritto suo perciò va oltre, e viene a prendere la forma d’un piccolo prodigio di elastica prensilità che percorre con ampie e sicure falcate ciò che per lui è l’essenza ed il manifestarsi dell’albanesità, dalle nebbie che fondon storia e mito, ai monumenti delle antiche gesta, per poi venire al Kastriota, alla sua morte, ai vari momenti della diaspora, ai luoghi in cui i semi albanici caddero, al modo con cui furono accolti, alla vita che, ridotta quasi a sé stessa, riprende forma, si definisce e articola: tutto, s’è detto e si ripeta con altre parole, senza che nulla venga omesso, senza sfiancar chi legge.

Scura scriveva in tempi in cui essere arbresh voleva dire assai di più che parlare arbrisht. Ed ecco ch’egli si fa antropologo, e il mondo dond’era stato esiliato gli fiorisce sul foglio a colori sì vividi che, adesso che quel mondo è morto, basta al lettore abbandonarsi al flusso delle pagine per saperne ogni cosa, dai riti di nozze a quelli funebri, e con essi e per essi rivedere le giornate dei villaggi albanesi di centocinquant’anni fa.

Di noi com’eravamo Scura conosce luci ed ombre, dice vizi e virtù. Non innalza peani. Non si liquefa in pianti. Quando i meridionali parlano di sé fan l’uno e l’altro. L’arbresh, Dieu merci, non lo fa.

Ministro arbresh, Pasquale Scura. Ministro d’Italia.

Va ricordato. Va conosciuto sempre più, sempre meglio. Perri ha aggiunto una tessera chiara a rifarne il mosaico. Gliene siamo ben grati. Possano altre aggiungersi. Però non ci si illuda: lo Scura fu uomo abile e giusto. Fu un grande uomo. Non fu un gigante. Contribuì all’unità nazionale. Non ne fu condizione imprescindibile. Nessuno pensi dunque di gonfiare d’aria un uomo che, se si vedesse ridotto a pallone, si bucherebbe da sé, dalla tomba, con un colpo di indice schietto assai più di quello d’uno stocco.

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